Biografia di Vito Campanelli
L´ininterrotta e continua trasformazione della produzione artistica di Vito Campanelli dai primi anni Ottanta ad oggi, è un processo accostabile alla concezione bergsoniana del tempo inteso come un continuo flusso della coscienza, tempo in cui un “prima” e un “dopo” vengono sostituiti dalla contemporaneità del “durante”. Per un pittore, è la materia la sostanza impressionabile pronta a reagire registrando subitaneamente gli sbalzi della psiche, gli eventi dell´esistere, del profondo in mutamento; materia che è e rimane problematica, scrive G.C.Argan, e proprio per questo l´artista può immedesimarsi in essa, identificarvi la propria problematicità. La materia è memoria, continua Argan citando Bergson, ma anche il qui-ora dell´esistenza : “...facendosi materia ciò che non è, il futuro si trasforma in ciò che è stato, il passato...la materia è il puro presente.”. E, sempre secondo Bergson, il senso più riposto della realtà non è avvicinabile con l´intelletto razionale, ma con l´istinto che al suo grado più alto diventa intuizione. Vito Campanelli si muove seguendo il suo istinto pittorico che diviene veggente intuizione nell´acquisita, attuale capacità di connettere - sempre senza l´ausilio della razionalità - le singole creazioni pittoriche in un discorso stilisticamente unitario e coerente. Coerenza stilistica che, dopo un percorso storico di ricerca caratterizzata da una febbrile metamorfosi, registrante appunto passaggi anche significativi da una tipologia espressiva segnico-cromatica ad un´altra, si è venuta decisamente affermando dal 2000 in poi. La ricerca di Campanelli, da sempre concentrata, dunque, sul divenire della res artistica, ha acquisito una nuova consapevolezza e oggettività, nel senso di saper ora scindere la cosa artistica dal sè. Ovvero, se prima, per istinto, l´artista registrava e in qualche modo subiva la metamorfosi, trascinato con e da essa, soggetto ancora immerso e confuso nei sommovimenti dell´inconscio, ora guarda e considera il proteiforme processo di cui è al contempo regista e interprete come una catena d´eventi separati dal proprio io: sa indagarlo con atteggiamento analitico tutto nuovo, fissandone il fluire in una sequenza di frames , inquadrature singole estratte dal proprio visionario fluire di coscienza, immagini di inquietudine coagulata in apparenze, anche consistenti, di forme. Abbiamo così una serie di enunciazioni visive, strutture linguistiche situabili in un ambiguo luogo di slittamento tra astrazione e informale, oscillanti dunque tra rigorismo formale astratto e dissolvenza della forma in “presenza” equivalente alla pura registrazione di gesti. E´ proprio sulla contrapposizione, sul versus tra rigorismo formale, derivato dalle istanze costruttivistiche, e assenza della forma disciolta in un eccesso di spontaneità della scrittura, di matrice espressionistica, che si è fondata, secondo W. Hofmann, l´arte del XX° secolo. Allora “Opus II “ (2004/05) , l´ultima serie-fase pittorica di Campanelli, in qualità d´esperimento di transizione tra queste due fondamentali tendenze, rappresentandone quasi un compendio e insieme un andare oltre, si configura quale fenomeno tipicamente contemporaneo, produzione del XXI° secolo. Se nella pittura informale, ricordiamolo, il gesto assume il valore di un´improvvisazione psichica diretta di cui rimane visualizzata sulla tela la vibrante, dinamica energia, e le forme-presenze hanno spesso il carattere di affioramenti indistinti, nell´astrazione, invece, permane almeno una traccia di progettualità; la forma sopravvive anche per assenza, al negativo, e continua a sussistere la differenza tra figura e sfondo, forma e spazio. Campanelli, in “Opus II”, si è spostato sul versante dell´astrazione, ma operando, con risultati altamente originali, tramite tecniche e modalità informali. Le forme e controforme che fa apparire presentano infatti una più o meno definita qualità di struttura: rarefatte e minimaliste, ma di nuovo cose, figure che emergono chiaramente su/da un fondo; il raggelamento e la stasi che potrebbero derivare da questo nuovo esercizio di controllo, da questa traccia di premeditazione, vengono evitati e compensati dai sapienti residui di espressività che connotano la serie. Si osservi uno dei principali motivi ricorrenti in “Opus”, che contribuisce a conferire alle opere l´identità visiva di una sequenza: la tecnica della colatura, ovvero gli “sgocciolamenti” di colore di cui Morris Louis, maestro dell´astrazione post pittorica anni Sessanta, aveva fatto una scienza; tecnica proposta in modo più libero e apparentemente casuale anche da Sam Francis, nell´ambito della cosidddetta “New York School”. La reinterpretazione di Campanelli, squisitamente personale, non è finalizzata unicamente all´effetto complessivo di movimento, che vuole accentuatamente mantenere. In questa pittura di transizione, luogo inquieto di forme non del tutto nate, solo parzialmente costituite, le colature sono da leggersi come un´inconscia, tesa ricerca di segni-non segno che facciano da ponte, da trait d´union , seppur esile, da collegamento capace di tenere in qualche modo insieme forme fantasime altrimenti più frammentarie e (a volte desolatamente) sperse, vulnerabili, quasi minacciate nel loro galleggiare solitario nell´ambiente-supporto. E´ la paura esistenziale di ritrovarsi frammentati e dispersi, che trapela nell´identificazione dell´artista con la materia e la forma pittorica. Il cambiamento produce insicurezza, la trasformazione genera angoscia. Campanelli si confronta, di volta in volta, con una parte del sè che, in modo certamente conflittuale, muta sembianza: l´aspetto finale è ignoto allo stesso artista. Non sapere cosa si sta diventando, a quale apparenza-sostanza si perverrà, non è un´esperienza da cui uscire indenni: malessere e disagio del profondo, chiaramente avvertibili, creano una speciale aura di sobria, sospesa drammaticità. “Opus II” è un insieme forte di slittamenti dall´informe al farsi forma, tra presenza e assenza: mostra il divenire di forme geometriche, ma al contempo indeterminate, colte, quasi fotografate sullo sfondo di un´interiore notte nel momento del loro definirsi; presenze fatte di colori di un mondo che non è il nostro. Un evento misterioso, quasi esoterico: l´origine della forma, proposto in tutte le varianti proprie a un rito ancestrale. Affioramenti primordiali assumono sotto l´occhio dell´osservatore carattere di struttura: quel a cui si assiste è la nascita della non-figurazione. A volte le forme-cosa - per esempio in “Opus II 555” - cozzano tra loro sfaldandosi e ricomponendosi, a volte invece - si veda la pregnante epifania del quasi-quadrato rosso in “Opus II 560” - scendono dall´invisibile nel riquadro del supporto mantenendo un rigore che può richiamare, come lontana ascendenza, significanti costruttivisti e minimali. In “Opus II 550” una sorta di ghigliottina rossa centrale scende a sfaldarsi, unita da esili colate alla sua metà perduta che fuoriesce in caduta libera dalla tela. La vastità del fondo nero è compensata dall´intensa irradiazione luminosa prodotta, mediante un uso istintivamente sapiente del contrasto di quantità, dalla piccola macchia gialla isolata sulla sinistra, richiamata da strisce di giallo naviganti, alla medesima altezza, sulla banda rossa che funge da blocco a destra. La composizione rettangolare di “Opus II 554” è uno squarcio sfolgorante sullo scontro magmatico e sulfureo tra potenze virtuali, masse e nebulose di rossi in opposizione, accesi dalla presenza esplosiva di un´unica macchia blu. Essendo un´immagine simmetrica, nell´insieme possiede un valore percettivo evocante le macchie di Rorschach. “Opus II 546” è una presenza bidimensionale e bicromatica fluttuante tra il geometrico e l´organico, un Narciso astratto riflesso come in uno specchio oscuro dalla superficie-fondo. In “Opus II 533“, una piccola composizione verticale, abbaglia l´accecante figura-sfondo creata dal ritaglio bianco sull´area nera, dai netti, incisivi contorni; alla zona in negativo in alto, tanto intensamente connotata, si contrappone, a piede, una macchia rossa sfumata e semi-trasparente. La capacità di Campanelli di muoversi su registri diversi assicurando al contempo una lettura unitaria e d´impatto all´insieme è davvero rilevante. Anche “Opus II 535” presenta un´evidente dialettica figura-sfondo tra chiaro e scuro. La fantasmatica e spettrale sagoma bianca risulta collegata da sgocciolamenti trasparenti al non visto, ma esistente, del campo oscuro, a sinistra in alto, a destra lateralmente. Elemento di forza l´intervento materico, di valenza tattile e tridimensionale, che spicca, irregolare e dorato, al centro della chiazza bianca. Un discorso a parte richiedono “Dispersione (Return)” del 2004, un´opera singola che non fa propriamente parte di Opus, e “Opus II 554” , sempre del 2004, che rientrano invece nella tipologia dei segni di parvenza ideogrammatica: segni-scrittura di cui sopravvivono i significanti in disfacimento. Le due opere richiamano sia i famosi “Writings” di Mark Tobey, influenzato dall´arte calligrafica giapponese, sia l´ingigantimento del segno nella rigorosa scrittura automatica e gestuale di un Franz Kline, in cui un singolo segno si espande, improvvisa apparizione, a riempire tutta la tela; così, in “Opus II 554” , una sorta di ideogramma verticale rosso su fondo grigio scuro scende verso il basso, sovrastato da un analogo segno-scrittura giallo del quale vediamo solo la parte finale nel mentre sta slittando nell´inquadratura del visibile decisa dall´artista. Infine, nel bellissimo “Opus II 568” , assistiamo al distacco o ritaglio di una singola sagoma arancio - sempre ancorata da sottili colature - dalla piatta massa sottostante. La sagoma liberata levita nel fondo grigio, depositando i fili di ragno del proprio sgocciolamento nel foro da cui è stata o si è estratta, foro definito a destra da una specie di pinza minacciosa. Anche qui è stato applicato il contrasto di quantità: la sagoma protagonista è attraversata da una luce bianca verticale che nel complesso dell´opera risulta accecante come un tubo al neon. Lo scambio, in simmetria dinamica, tra positivo-alto e negativo-basso, dimostra una ricerca istintiva, e intuitiva, tesa a ritrovare un equilibrio e un ordine nell´esistenza tormentata e inquietante della res artistica: un rigore che contrasti e compensi il minaccioso cozzare di entità semi-formate. Campanelli sembra quasi volersi salvaguardare da se stesso: pone dei limiti al traboccare dell´interna eruzione, con il risultato di cambiare di valenza il “limite”, trasformandolo in una svolta importante e significativa per l´evoluzione del proprio linguaggio pittorico.
Michela Giacon
1996. GIULIO GASPAROTTI
Opus è uno dei più interessanti percorsi di questo artista. Tecniche miste su tela che fanno le bucce all´informale trattato con la singolare ariosità e curiosità del paesaggio, da cui stillano effusioni cromatiche combinate a tracce, scelte per sostituire al protagonismo della forma, quello della materia. Un´ indubbio lirismo accompagna l´indagine del vero e, particolarmente, della polivalente realtà visibile ed interiore. La qualità espressiva ed il significato simbolico della materia pittorica in sè, assumono il traslato fisico essenziale delle realtà "reinventate" nei risalti delle proprietà tattili dei mezzi toni, delle luci chiare e sfumate, nel potere evocativo e virtuosistico del colore, lontano però da caratteri eidetici. Forma, timbro, tessitura e spessori variano per interventi derivati dall´interno, non già dall´esterno. Quasi di ordine genetico, epperciò da distinguere nelle potenzialità, sia pure sintonizzate sul mondo della vita a livello di espressione diretta.
1994. DANIELE UMBERTO
Campanelli si allontana dai margini delle cose per scatenare un magma che subito sfoca fino a perdere l´incandescenza del memorabile nell´estensione del movimento. In sovrani dialoghi con il bianco, destino di ogni colore e fine di ogni luce, le cromie paiono dilatarsi sulle tormentate superfici sino a sfuggire oltre gli argini della cornice: al contempo,perciò, la potenza dell´espressione volentieri si annulla, mentre si scoprendosi ospite del luogo chiuso,allusivo,di uno spazio dipinto. Assolutamente lontano da progettati equilibri compositivi, subentra allora un introspettivo dialogo con le cose. Gli accordi cromatici vengono annullati dall´irruzione straniante di un elemento, di un "quid" imprevisto eppure assolutamente necessario: oggetti di memoria, giustificazione esistenziale del persistere sopito della passione. Quest´insanabile, fruttuosa dicotomia si apparenta all´altro doppio amore per il colore, scisso nel contrasto tra la liricità del tono ed il corporeo spessore della materia, e conferma la vocazione del dipinto come luogo della possibile mediazione tra i mondi separati della fisicità e della soggettività. Il luogo naturale per eccellenza.
1990. PAOLO RIZZI
Si fa largo nella nebulosa d´un colore leggero, senza peso. Indugia su certe sfumature di toni pastellati, s´inoltra nei ritmi di una forma suggestivamente allusiva, penetra all´interno di certi gangli più densi come coaguli di stelle. E´ un viaggio che ci avvicina all´ignoto. Le sensazioni sono quelle di una materia che si rarefà, si scioglie, si distilla, magari si sgrana dolcemente entro itinerari sempre inconsueti, inattesi. Così è la pittura di Vito Campanelli: sensibile e raffinata, lontano da ogni chiasso consumistico. Un cibo per palati culturali. La sua linea è coerente, indice di una modalità estetica nata dal di dentro, non mutata dalla moda. Le sue matrici stilistiche affondano nell´informale, in una direzione lirico-materica più che segnica o gestuale: quindi è vicino a Fautrier, gli "otages", e magari a Santomaso, almeno per un certo gusto di decantazione del colore. Piace soprattutto quando arriva, nei suoi nuclei espressivi, ad imprimere una vaga allusività organica: uno stimolo alla percezione che non sia meramente ottica (edonistica) ma psichica (simbolica). Allora c´è qualcosa di arcano che si cela all´interno dell´epitelio cromatico; e solletica ancor più la nostra fantasia. Certo, oggi irrompono di prepotenza sull´orizzonte dei mass media le violenze serializzate dell´immagine di consumo. E´ un altro mondo. Campanelli preferisce il silenzio, o meglio i mezzi toni, i sussurri: quelle "nuances" di una luce chiara che si diffonde sulle screziature del marmorino, fino a toccare le parti più delicate della nostra sensibilità. Sono paesaggi inventati, ma anche aderenze precise ad una fisicità sublimata dei sensi. Appunto viaggi: viaggi verso un´utopia che ci accolga serenamente, rendendoci liberi di scegliere la strada che più si confaccia alle nostre inclinazioni. Quadri come questi di Campanelli, sono fatti per sognare. Ma è un sogno ad occhi aperti. |